La rilevanza del settore. Oltre 1.200 centri commerciali in Italia, 36.000 negozi (di cui 7.000 a gestione unifamiliare), per un volume d’affari totale del settore pari a 139,1 miliardi di euro e un’incidenza sul PIL italiano pari al 4%. I centri commerciali impiegano oltre 587.000 persone, senza considerare l’indotto che generano (dati CNCC, Consiglio Nazionale dei Centri Commerciali).
Le difficoltà
Se durante il lockdown la GDO (grande distribuzione), dal punto di vista economico, ha beneficiato dalla corsa agli acquisti, non è così per tutte le attività commerciali chiuse nelle gallerie dei centri commerciali. Con la prossima riapertura, anche se è difficile fare ora previsioni, la GDO potrebbe comunque registrare un calo delle vendite. Tutti gli stakeholders coinvolti, dai proprietari dei centri, alle società di servizi e i retailers, hanno il comune interesse di individuare soluzioni che consentano a tutti gli attori coinvolti di salvaguardare la sostenibilità economica.
In assenza di provvedimenti, infatti, il possibile collasso di molti retailers, ossia i negozi all’interno dei centri commerciali, provocherebbe effetti negativi sui proprietari dei centri, in prima battuta per il mancato incasso degli affitti, e successivamente, per le difficoltà nel riempire gli spazi lasciati vuoti. A ciò si aggiunge, sotto il profilo sociale, l’annessa ricaduta sull’occupazione ed il conseguente calo di gettito per l’Erario. Per tale ragione, è opportno che i soggetti più forti (e decisori), a partire dal Governo e, presumibilmente, le proprietà dei centri, si interroghino sulla possibilità di intervenire a supporto dei retailers.
La CNCC, consapevole della gravità della situazione, come recentemente riportato su quotidiani nazionali, sta cercando (per ora senza risultati) di ottenere l’attenzione del Governo e ha “messo sul tavolo” alcune proposte, che meriterebbero di essere attentamente valutate da parte del Governo. Oltre a ciò, ritengo che dovrebbero essere anche disponibili a rivedere gli attuali contratti in essere con i retailers (nella forma di affitto di ramo d’azienda) e a modificare le regole all’interno delle gallerie.
I benefici (temporanei) per la GDO – Grande distribuzione
Gli incrementi degli incassi nel periodo di chiusura sono stati la conseguenza di diversi fattori:
- l’effetto stock: l’ingiustificato timore dei consumatori di carenza dei prodotti alimentari;
- l’esigenza di acquistare prodotti per l’igiene personale e delle abitazioni;
- il fatto che fare la spesa fosse una valida giustificazione per uscire di casa;
- l’incremento dei consumi di generi alimentari prodotto dalla chiusura delle aziende e delle scuole, dovuto anche ai ritmi ridotti che hanno “liberato” maggiore tempo per i pasti durante la giornata rispetto ai ritmi delle giornate di lavoro pre-Covid;
- la disponibilità del canale di e-commerce, dei servizi di delivery e il ritiro presso il punto vendita;
- l’impossibilità di acquistare determinati prodotti presso i negozi tradizionali che hanno dovuto chiudere, anche se limitato dal divieto di vendere alcune tipologie di prodotti (fenomeno ulteriormente accentuato dalle partnership instaurate con i principali canali online che hanno gestito la distribuzione anche a domicilio).
Con le progressive riaperture, alcuni di questi punti perderanno di rilevanza, come il poter uscire di casa, il venire meno dell’effetto stock, la riapertura di mense nelle imprese che prima erano chiuse. Inoltre, una parte delle vendite potrebbe spostarsi a favore dei negozi di quartiere, per il timore del contagio e per limitare le code. In molti casi, la GDO si è attivata per potenziare ulteriormente i servizi di e-commerce e di delivery, consapevole del fatto che l’incremento della propensione agli acquisti sul web determinerà presumibilmente una contrazione delle vendite tradizionali.
Non possiamo poi nasconderci che ci sarà un generale calo dei consumi dovuto al calo dei redditi che si rifletterà anche su minori acquisti.
Le prevedibili difficoltà dei retailers nelle gallerie dei centri commerciali
La problematica più rilevante riguarda, con ogni probabilità, le catene di negozi e le altre attività di bar, ristorazione, ecc. all’interno delle gallerie dei centri commerciali. È facilmente prevedibile che con la riapertura in molti (o anche tutti) non torneranno ad ottenere i ricavi pre Covid-19.
I fattori che potranno provocare un calo dei ricavi si possono ricondurre principalmente ai seguenti:
- il timore del contagio che indurrà alcuni consumatori ad acquistare presso i negozi di quartiere o sul web, anche a seguito della maggiore propensione ad acquisti attraverso l’e-commerce;
- gli ingressi contingentati ridurranno in molti casi il numero di persone che potrà essere servito;
- le code all’ingresso dei negozi costituiranno un elemento psicologico che disincentiva l’acquisto;
- le difficoltà a raggiungere i centri commerciali per via della riduzione dei posti nel trasposto pubblico (tram, bus e metro).
Ma soprattutto, come già sottolineato, si deve tenere conto che si registrerà un calo generalizzato della domanda, in modo particolare per i prodotti non ritenuti essenziali, per via del minor reddito. Le stime attuali degli economisti indicano un calo del PIL che potrebbe essere di un intorno del 9-10%, il doppio rispetto all’anno peggiore quando nel 2009. Questo calo dei ricavi potrebbe inoltre essere accompagnato da un incremento dei costi perché temi quali la sanificazione, l’assunzione di misure di contenimento (plexiglass) o il destinare risorse umane al controllo e alla supervisione delle affluenze potrebbero richiedere la ridefinizione di mansionari e compiti (si pensi agli addetti che sulla porta devono verificare temperatura e adeguato distanziamento).
Il modello di business dei retailers
Il modello di business all’interno dei centri commerciali è basato su una struttura di costi fissi rilevanti rappresentati dai costi degli affitti degli spazi e dall’elevata incidenza del costo del lavoro, dovuto all’apertura sette giorni su sette, dodici ore al giorno. Per i negozi in franchising si deve anche aggiungere il costo delle royalties riconosciute al franchisor. Se infatti da un lato questo modello di business è stato vincente per molti anni, grazie al flusso enorme di persone che frequentano i centri commerciali, c’è anche l’altra faccia della medaglia.
Una struttura di conto economico di questo tipo “condanna”, necessariamente, a mantenere livelli di vendite elevate (ricavi) per poter raggiungere l’equilibrio di gestione. La ridotta marginalità tipica di tali attività commerciali, in presenza di un calo dei consumi, rischia per molti retailers di provocare perdite di gestione insostenibili. Nel periodo di chiusura (ipotizzabile della durata di un intero trimestre) sono infatti maturati gli elevati costi degli affitti a fronte di nessun ricavo.
Cosa fare: strategie per il rilancio
Con le riaperture le catene dei negozi nelle gallerie dei centri commerciali dovranno affrontare due problemi:
- reperire liquidità sufficiente per fronteggiare il pagamento di debiti verso fornitori e affitti non avendo potuto incassare nulla nel periodo di chiusura;
- adottare strategie che consentano di raggiungere un equilibrio economico nonostante il prevedibile calo delle vendite tale da consentire la prosecuzione dell’attività.
1. Reperimento della liquidità alla riapertura
Il DL liquidità rappresenta un rilevante intervento da parte del governo ma con ogni probabilità si tratta di una misura insufficiente, sarebbero necessari interventi attraverso misure dirette a sostenere la redditività dei retailers. Alcuni retailers ricorreranno ai finanziamenti parzialmente garantiti dallo Stato per poter sostenere gli impegni finanziari immediati e l’auspicio è che i tempi per l’ottenimento non siano troppo lunghi. La CNCC ritiene che si debba riconoscere anche ai retailers all’interno dei centri commerciali il credito d’imposta pari a 60% del canone di affitto concordato.
2. Come raggiungere l’equilibrio economico in un periodo caratterizzato dalla riduzione delle vendite
Il problema di maggiore rilevanza da risolvere è rappresentato dalla sostenibilità del business dal punto di vista economico. Per quanto riguarda i possibili aiuti da parte del Governo, è interessante la richiesta presentata da CNCC di prevedere un temporaneo dimezzamento dell’IVA sui beni non alimentari venduti su rete fisica(tutti gli esercenti, ovunque presenti, escluse le vendite online), al fine di sostenere i negozi che vendono i prodotti maggiormente colpiti dalla pandemia. In questo modo gli aiuti sarebbero diretti a tutte le tipologie di negozi, non avvantaggiando pertanto soltanto i retailers all’interno delle gallerie dei centri commerciali.
un modello di business rigido
Il modello di business dei retailers impone ricavi elevati per poter sostenere costi fissi elevati rappresentati dagli affitti dello spazio all’interno del centro commerciale e dall’elevato costo del personale, pertanto, per sostenere la ripresa si deve valutare un intervento su entrambi i costi fissi:
- affitti: i proprietari dei centri commerciali, compatibilmente con i loro bilanci, devono valutare di ridurre i canoni rispetto a quanto previsto dagli attuali contratti. Si potrebbe in particolare intervenire eliminando o riducendo la quota fissa (in genere i contratti prevedono infatti un canone basato su di una quota fissa minima garantita a cui si aggiunge una percentuale sul volume d’affari). Nei prossimi mesi, potrebbe essere difficile sostituire i retailers in caso di chiusura, pertanto ci dovrebbe essere un comune interesse a trovare una soluzione;
- costo del lavoro: è un tema molto doloroso per gli effetti sull’occupazione, ma si tratta di un costo particolarmente rigido in tale modello di business. Mentre infatti quando una fabbrica registra un calo della domanda può ridurre il costo del personale usufruendo della cassa integrazione, fino ad arrivare agli eventuali licenziamenti, nel modello di business dei negozi all’interno dei centri commerciali non è perseguibile nessuno dei due interventi. Non è infatti possibile ridurre il personale in caso di contrazione delle vendite, in quanto il personale è quasi tutto rappresentato da commessi e commesse e lavoratori indispensabili per consentire l’operatività dei negozi.
L’unico modo per poter intervenire su tale costo è quello di ripensare gli orari di apertura dei centri commerciali.
La chiusura settimanale
In questo momento di contrazione della domanda, si deve valutare di introdurre il giorno di chiusura settimanale (ma non certo la domenica che è una delle giornate che registra i maggiori flussi). Sulla base delle statistiche delle vendite dovrebbero essere modificate le regole dei centri commerciali consentendo (non imponendo) a chi lo ritiene necessario di chiudere una giornata alla settimana (tra l’altro potrebbe anche rendersi necessario per consentire le attività di sanificazione).
Se infatti l’apertura sette giorni su sette è un vantaggio per i consumatori, è evidente che in un contesto di calo dei ricavi, la chiusura di un giorno infrasettimanale comporterebbe una riduzione non significativa dei ricavi a fronte di una riduzione importante del costo del lavoro. A chi sta pensando ma in questo modo si rischia di incrementare l’occupazione, non posso che ricordare che in caso di chiusura di intere catene di negozi diffusi in tutta Italia le ricadute occupazionali sarebbero ben maggiori. Non si può credere alla favola “nessuno perderà il posto di lavoro”. In ogni caso, si potrà in una prima fase ricorrere alla cassa integrazione, con l’auspicio che vi sia nei prossimi mesi una ripresa dei consumi tale da consentire di ripristinare i precedenti orari.